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Le mie porte

Aggiornamento: 27 mag 2021

Parlare di porte potrebbe sembrare banale, ma quando ho pensato al significato della porta come "passaggio" mi ci sono persa via per un’intera giornata.

Io le porte le ho sempre osservate attentamente, sarà per deformazione professionale o solo per semplice curiosità, ma quando mi si presenta davanti un oggetto all’apparenza insignificante, cerco sempre di trovargli qualcosa di più profondo. Mi capita anche con i cuscini, con le matite, con le scale, con le mani e con le nuvole. Mi capita con gli oggetti che ti portano altrove, per intenderci.

È da un po’ che voglio scrivere di porte, ma non sapevo da cosa cominciare.

Fino a che, poco tempo fa, me ne si è chiusa un’altra in faccia.

Io non so cosa mi spinga ad aprire continuamente porte sbagliate - davvero ancora su questo ci devo lavorare - ma sta di fatto che mi capita spesso e “ancora una volta”.

Non sono mai stata una gran viaggiatrice. Diciamo che nella mia zona comfort ci sono sempre stata comoda. Ho “le mie case buone” e solitamente amo sempre stare dove sto, senza mai andare troppo in là. Quando mi si presentano nuove porte da aprire, la maggior parte delle volte le lascio così, chiuse, perché l’ansia di non sapere cosa potrò trovare dall’altra parte mi spaventa troppo. Mi capita con quelle decorate, grandi e preziose, quelle troppo nuove. Sono una di quelle che abbandona il gioco ancora prima di iniziare la partita, per non rischiare di perdere.

Ho sempre pensato che conoscere le mie porte sarebbe bastato a non volerne ricercare di nuove. E con “le mie porte” intendo tutte le mie porte, sia quelle fisiche che quelle mentali, o di cuore - dite come vi pare.

Ci sono però delle porte che non riesco a non ammirare attentamente. Parlo di quelle di legno mezze colorate, consumate dal tempo e con qualche crepa, quelle vissute. “Chi ci sarà lì dentro?” “Cosa avrà visto questa porta?” “Chi l’avrà chiusa?”

Ecco, io davanti a queste porte mi ci perdo. La mia curiosità sconfigge la paura del vuoto, l'ansia che mostra la mano tremolante sulla maniglia rovinata. Mano insicura spesso e volentieri per il sesto senso che mi dice: “Occhio Giulia, sei sicura di aprire? Sei sicura di voler conoscere e rischiare?”

Finisce che io con queste porte scelgo sempre di rischiare, cedo alla tentazione e alla curiosità, non mi ferma nulla. Poi fai un passo e subito il primo passo ti porta un po’ più in là, anche quando capisci che è meglio tornare indietro. Ma ormai hai visto, ormai sei oltre.

La porta più dolorosa che ho aperto è quella che pensavo di amare di più. Era verniciata biancastra a quadrotti (passatemi il termine, li ho sempre chiamati così) e aveva pezzi di colore scheggiati che mostravano segni del legno al di sotto. Avrà avuto almeno trent’anni. Relativamente alta e stretta, si chiudeva male e lasciava passare l’aria fredda sotto. La maniglia oro tutta rovinata ballava avanti e indietro e la bocchetta per inserire la chiave era in parte staccata. Per aprirla o chiuderla servivano almeno tre giri di una chiave di quelle piccole con il cappuccio a triangolo ed era talmente sgangherata che facevo una fatica boia ogni volta. Tra tutte quelle del mazzo, che stavano in un piccolo portafoglio di cuoio, lei era l’unica che non trovavo mai; il più delle volte probabilmente voleva nascondersi da me.

Di quella porta ricordo bene i momenti in cui ero persa lì fuori, accovacciata sulla zerbino, mentre mi mettevo a staccare i pezzi di quella vernice che sarebbe saltata via in ogni caso e dalla quale spesso uscivano dei piccoli ragnetti che, non so perché, ancora sogno.

Mi rendo conto, ora che scrivo, che un racconto così dettagliato sta a dimostrare quanto io ci sia ancora legata. Sento ancora il metallo freddo nella mia mano mentre tentavo di chiuderla per sempre, senza trovare mai la forza di farlo.

Ricordo la prima volta che l’ho aperta: era sicuramente una domenica. Pensavo fosse l’ultima che avrei Aperto e Conosciuto, invece l’ho sbattuta talmente tante volte che probabilmente non mi perdonerà mai. Anche perché quando mi ci appoggiavo mentre discutevo, lei si apriva continuamente, io perdevo l’equilibrio e poi le davo la colpa.

Di quella porta biancastra ricordo anche che, l’ultima volta che l’ho chiusa, l’ho salutata. Sapevo che non l’avrei più rivista. Da quella volta mi sono ripromessa di cambiare strada quando ci devo passare in macchina: non voglio sentirne la mancanza, non voglio ricordare quell’ultima volta. Se ci ripenso, però, mi manca quella maniglia rotta… chissà quanti ancora la apriranno. Ora l’ho perdonata, dopotutto lei mi stava solo suggerendo quello che avrei trovato dentro: qualcosa di rotto, scheggiato, tagliato, consumato. Avrei dovuto ascoltarla!

Un’altra porta che ricordo bene è quella della casa dei nonni, nelle Marche.

Penso sia la mia porta preferita perché quando la apri da dentro, trovi il mare davanti. Lei non è sgangherata e non è nemmeno di legno, ma a me piace comunque. Bianca, lucida, a vetrata: abbinamento che odio e apprezzo solo ed unicamente perché si tratta di quella porta. Da piccola la vedevo enorme - non finiva più, le chiavi le portava la nonna nella borsa da spiaggia ed ogni volta che arrivavo sulla terrazza dopo quei gradini infiniti, non vedevo l’ora di aprirla io. La mattina, quando la tenda è tirata, si vede l’alba sulla linea del mare. Ed io solitamente punto la sveglia per ammirarla a piedi nudi sul pavimento a piastrelle fresco e un po’ salato.

Quella porta ha dei superpoteri ed è “Incredibile” perché da qualsiasi parte tu la guardi, mostra sempre il mare: dall’interno è finestra e dall’esterno è specchio.

Lei mi ha regalato uno tra i momenti più importanti che porto nel cuore. Era tardo pomeriggio ed io ero seduta sulla sedia che dava sul tavolo tondo in cucina. Spesso osservavo con il binocolo del nonno le navi all’orizzonte e quella volta sono riuscita a guardare un poco più lontano. Non so il perché, stavo sola in quella casa con il sole che tramontava, ho abbassato il binocolo e ho aperto quella porta - a piedi nudi: è stata la prima sensazione di libertà che ricordo per davvero, la prima volta che sono riuscita ad amare me stessa. Una piccola parte della pace di oggi la devo a quella porta che, quel giorno di due anni fa, mi ha permesso di vedere un po’ più in là. Ci ritornerò presto.

La porta che mi si è sbattuta in faccia poco tempo fa invece non è così interessante.

Diciamo che rispetto a tutte le altre non ho avuto il giusto tempo di visualizzarla per bene. Come se l’avessi aperta ad occhi chiusi sentendone solo il profumo. Che poi io lo so che con gli odori non ci azzecco mai, potevo anche aspettarmelo. Pensavo fosse la porta della svolta, la porta del famoso passaggio che aspettavo da tempo, ma poi si è rivelata fuffa.

Quindi l’ho aperta, ho fatto un passo senza alzare il piede di appoggio e poi son tornata indietro. L’ho chiusa, ho girato la chiave e ora sono altrove. Ormai il mio sesto senso non vede l’ora di farmi chiudere tutte le porte che non gli vanno a genio, sarà che vede dal buco della serratura prima di me, non lo so... so solo che ho imparato ad ascoltarlo.

Non so quante e quali altre porte mi si presenteranno in futuro, ma spero di avere tutto il tempo necessario per poterle osservare bene da capo a piedi. Sicuramente mi abbasserò per guardare dalla serratura prima di entrare.

C’è una porta però tra tutte quelle che ho aperto, chiuso, sbattuto e rotto alla quale sono più affezionata. La porta che ho spalancato quel giorno e che poi ho scelto di aprire tutti i giorni. La Mia porta - che - porta oltre. Mi è capitata davanti come un fulmine o meglio come una nuvola che non ti aspetti. Le chiavi grosse che girano a due mandate, lo zerbino incastrato sotto e quell’odore di chiuso mi sono bastati per scegliere il mio luogo del cuore.

Lei è grande, pesante, nera e con un vetro spesso come un muro, a volte si chiude male restando due millimetri indietro e quando piove forte sembra che faccia apposta ad invitare l’acqua ad entrare. Fa sempre quello che vuole: quando la spingi non si ferma e va a sbattere contro gli oggetti in vetrina, non mi ascolta mai.

La porta di Oltre le nuvole non volevo fosse così, avrei preferito una porta azzurra stile vintage con fiori fucsia appoggiati che scendono a cascata, ma il giorno che l’ho aperta per la prima volta non ci ho pensato. Non ci ho più pensato e oggi ho capito, dopo quasi tre anni, che a me questa porta va bene così com’è perché ho realizzato, grazie alle mie esperienze, che intanto le porte belle non necessariamente portano ad un luogo sereno. Se non avessi scelto questo posto per colpa di quella porta, non me lo sarei mai perdonata.

È da un po’ ormai che ho imparato a dare importanza al contenuto delle cose e non alla loro facciata. La curiosità mi ha sempre portato ad aprire le porte che preferivo, a farmi fare il passo in entrata e il più delle volte a pentirmene.

Ed è solo ora, mentre guardo l’entrata di Oltre le nuvole, che capisco che l’unica porta che ho veramente scelto nella mia vita, si è dimostrata essere la sola ed unica che ora io davvero chiamo Casa.

Con la mente di Giulia,

con gli occhi di Muna.

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